Lasciar andare non significa semplicemente esprimere verbalmente questa intenzione. È un processo interiore profondo che implica una consapevolezza pura nel momento della morte, priva di attaccamenti emotivi alla famiglia, senza il peso del dolore provocato dall’amore e dalla separazione dai propri cari. Questo è il vero significato di lasciar andare. Se nel cuore persiste ancora una traccia di consapevolezza o attaccamento verso la famiglia, allora si rimarrà inevitabilmente intrappolati nel ciclo infinito della vita e della morte. È essenziale comprendere che siamo giunti in questo mondo Saha portando con noi il karma accumulato, e che il nostro compito è entrare nel percorso del Buddismo per scoprire un nuovo sentiero che conduca alla liberazione dalla sofferenza e dall’eterno ciclo dell’esistenza in questo mondo Saha. Non dobbiamo creare ulteriore karma negativo né tornare al vecchio percorso di vita e morte per inseguire il piacere derivante dai beni materiali come vestiti, cibo e rifugio. Non bisogna essere avidi nemmeno di longevità.

Se non impariamo a praticare seguendo il cammino verso la liberazione, anche se potessimo vivere 200 anni, non faremmo altro che accumulare ulteriore karma. Al termine di quei 200 anni, ci troveremmo comunque costretti a ripetere il ciclo della nascita e della morte. Il nostro corpo fisico è una forma temporanea, destinata a nascere, invecchiare, ammalarsi e infine perire. Non possiamo fare affidamento su di esso in eterno. Dobbiamo allenare la nostra mente a guardare oltre, a distaccarci e a lasciar andare ogni attaccamento. Tuttavia, dobbiamo ricordare che la nostra vera essenza, la nostra natura spirituale e consapevole, è qualcosa di eterno e immortale, che trascende il ciclo della vita e della morte.

Nel vasto e profondo panorama degli insegnamenti buddisti, la figura venerabile di Luang Por Chah risplende come un faro di saggezza pratica e accessibile. Tra le innumerevoli perle di verità che ha condiviso con i suoi discepoli e con il mondo, uno degli insegnamenti che risuona con particolare forza e che continua a illuminare il cammino di innumerevoli praticanti è il concetto del lasciar andare. Questa nozione, apparentemente semplice nella sua formulazione, dischiude in realtà una comprensione radicale della natura della sofferenza e del sentiero verso la liberazione. Per Luang Por Chah, il lasciar andare non era un mero esercizio mentale o una vaga aspirazione spirituale, bensì un principio dinamico e intrinsecamente legato al nostro impegno con la realtà.

Una delle frasi chiave che Luang Por Chah utilizzava con frequenza e incisività per svelare il significato autentico del lasciar andare e per guidare i suoi studenti nel suo sviluppo pratico era l’affermazione che dovremmo lasciar andare “nell’azione”. Questa locuzione, apparentemente paradossale, racchiude una profonda intuizione sulla vera natura della pratica spirituale. Essa ci rammenta con immediatezza e chiarezza che il lasciar andare non deve essere frainteso come un invito all’inerzia, all’apatia o all’astensione dall’impegno attivo con il mondo che ci circonda. Non è una forma di passività rassegnata di fronte agli eventi della vita. Al contrario, Luang Por Chah ci indica che il processo di lasciar andare, la vera liberazione dalle catene dell’attaccamento e dell’avversione, si svolge e si coltiva proprio all’interno del fluire delle nostre azioni, nel cuore stesso del nostro interagire con le esperienze che la vita ci presenta istante dopo istante.

Questa prospettiva ribalta una concezione erronea e piuttosto diffusa del lasciar andare, che spesso viene associato a un’idea di distacco freddo e distante, quasi come se dovessimo ritirarci dal mondo per poterci liberare dalle sue sofferenze. Luang Por Chah, con la sua saggezza terrena e profondamente radicata nella pratica monastica della Tradizione della Foresta Thailandese, ci mostra invece che la liberazione non si trova nell’evitamento dell’azione, ma nella trasformazione del nostro modo di agire e di relazionarci con i risultati delle nostre azioni.

Lasciar andare “nell’azione” implica una consapevolezza acuta del momento presente mentre agiamo. Significa essere pienamente presenti in ciò che stiamo facendo, senza essere trascinati via dalle preoccupazioni per il passato o dalle ansie per il futuro. In questa presenza consapevole, impariamo a osservare i nostri pensieri, le nostre emozioni e le nostre reazioni senza identificarci ciecamente con essi. Riconosciamo la loro natura transitoria e la loro intrinseca impermanenza. È proprio in questa osservazione distaccata che inizia a dissolversi la presa dell’attaccamento.

Quando agiamo con questa consapevolezza, siamo in grado di compiere le nostre azioni con intenzione e responsabilità, ma senza aggrapparci ai risultati. Comprendiamo che i risultati delle nostre azioni sono condizionati da una miriade di fattori esterni al nostro controllo e che l’attaccamento a un esito specifico non fa altro che generare frustrazione e sofferenza. Lasciar andare “nell’azione” significa quindi impegnarsi pienamente nel processo, dare il nostro meglio in ogni situazione, ma rimanere aperti e sereni di fronte a qualsiasi risultato si manifesti.

Questo insegnamento ha implicazioni profonde per ogni aspetto della nostra vita. Nel lavoro, ci spinge a dedicarci con impegno ai nostri compiti, ma a non identificarci eccessivamente con il nostro ruolo o con il successo o il fallimento dei nostri progetti. Nelle relazioni, ci invita ad amare e a prenderci cura degli altri, ma a riconoscere la loro autonomia e la natura impermanente di ogni legame. Nella pratica spirituale stessa, ci guida a impegnarci con diligenza nelle nostre meditazioni e nelle nostre pratiche etiche, ma a non attaccarci a particolari stati di coscienza o a presunti progressi spirituali.

In sostanza, lasciar andare “nell’azione” è un invito a vivere pienamente ogni momento, ad agire con saggezza e compassione, ma a mantenere una mente equanime e distaccata dai risultati, comprendendo che la vera libertà risiede nella capacità di fluire con il divenire della vita, senza opporre resistenza al cambiamento e all’impermanenza intrinseca di tutte le cose. È un cammino di progressiva liberazione dalle catene dell’attaccamento, un passo alla volta, in ogni azione che compiamo.

Nella sincera aspirazione di seguire le orme del Buddha e di coltivare le virtù che conducono alla liberazione dalla sofferenza, può talvolta emergere una critica insidiosa e potenzialmente destabilizzante: l’accusa di attaccamento al Vinaya, di un’eccessiva aderenza e dipendenza dalla disciplina monastica. Questa osservazione, spesso formulata da coloro che osservano dall’esterno o da coloro che interpretano in modo superficiale i principi del non-attaccamento, può presentarsi come una sfida ardua da affrontare e confutare in modo convincente.

L’essenza di questa accusa risiede nel paradosso apparente: come possono coloro che aspirano al non-attaccamento, un pilastro fondamentale dell’insegnamento buddista, essere accusati di attaccamento a un sistema di regole e precetti, per quanto nobili e ben intenzionati possano essere? Se il fine ultimo è la liberazione da ogni forma di aggrappamento, come si concilia questa aspirazione con la meticolosa osservanza del Vinaya, il complesso codice di condotta che regola la vita dei monaci e delle monache?

La domanda che sorge spontanea di fronte a tale critica è secca e apparentemente logica: se qualcuno ci etichetta come “attaccati al Vinaya”, la risposta appropriata per dimostrare la falsità di tale accusa dovrebbe forse consistere nel cessare immediatamente di osservare i precetti? Dovremmo forse abbandonare le pratiche disciplinari che ci guidano nel nostro cammino spirituale per provare, attraverso un atto di ribellione, la nostra presunta non-dipendenza da esse?

È in questo punto cruciale che emerge la necessità impellente di operare una distinzione chiara e profonda tra l’attaccamento vero e proprio e concetti affini ma ontologicamente diversi come la devozione e la lealtà. Confondere queste sfumature può portare a fraintendimenti significativi sulla natura della pratica buddista e sulla funzione essenziale del Vinaya nel coltivare un ambiente propizio alla crescita spirituale e alla liberazione.

L’attaccamento (upādāna in Pali), nel contesto buddista, si riferisce a una forma di aggrappamento possessivo e basato sull’ignoranza alla natura impermanente e insoddisfacente delle cose. È una tendenza della mente a identificarsi con ciò che è transitorio, a desiderare che ciò che è mutevole permanga, e a considerare come “sé” ciò che è in realtà privo di un’esistenza intrinseca e indipendente. Questo attaccamento è riconosciuto come una delle radici principali della sofferenza (dukkha).

La devozione e la lealtà, d’altra parte, pur implicando una forma di adesione e impegno, si distinguono dall’attaccamento per la loro motivazione e per la comprensione che le sottende. La devozione può essere definita come un profondo senso di rispetto, ammirazione e fiducia verso un ideale, un maestro o una pratica. La lealtà, in questo contesto, si riferisce a un impegno cosciente e volontario a sostenere e onorare i principi e le pratiche che si sono scelti come guida.

Nel caso del Vinaya, la nostra adesione non dovrebbe scaturire da un attaccamento cieco e possessivo alle regole in sé, come se fossero fini ultimi immutabili. Piuttosto, dovrebbe radicarsi in una devozione al Buddha e al suo insegnamento, riconoscendo nel Vinaya un mezzo abile e collaudato per coltivare le qualità interiori necessarie per la liberazione: l’integrità etica (sīla), la concentrazione mentale (samādhi) e la saggezza (paññā). La nostra osservanza dei precetti dovrebbe essere animata da una lealtà al sentiero che abbiamo scelto di percorrere, comprendendo che la disciplina monastica crea un ambiente di armonia, rispetto e sostegno reciproco all’interno della comunità, facilitando la nostra crescita individuale e collettiva.

Pertanto, la critica di attaccamento al Vinaya può essere affrontata con una profonda riflessione sulla nostra motivazione interiore. Ci aggrappiamo ai precetti per paura di trasgredirli e delle conseguenze che ne deriverebbero, o li osserviamo con gioia e consapevolezza, comprendendo il loro valore intrinseco nel purificare la mente e nel coltivare la virtù? La risposta a questa domanda è cruciale per distinguere l’attaccamento dalla devozione e dalla lealtà.

Abbandonare l’osservanza dei precetti nel tentativo di dimostrare il non-attaccamento sarebbe un atto controproducente e illogico. Sarebbe come gettare via una medicina efficace perché temiamo di diventarne dipendenti. Il Vinaya non è una catena da spezzare, ma uno strumento da utilizzare con saggezza e consapevolezza nel nostro cammino verso la libertà. La vera sfida non consiste nell’abbandonare la disciplina, ma nel coltivarla con una mente libera dall’attaccamento, comprendendo la sua funzione transitoria e il suo ruolo nel condurci oltre la necessità stessa di regole e precetti, verso la libertà interiore che è l’obiettivo ultimo della pratica buddista. La nostra devozione e la nostra lealtà al Vinaya dovrebbero quindi essere guidate dalla saggezza, dalla comprensione del suo scopo e dalla consapevolezza che esso è un mezzo, non un fine in sé.

Certamente, approfondiamo ulteriormente questa cruciale distinzione linguistica e concettuale presente nella lingua Pali, che getta una luce significativa sulla natura dell’attaccamento e sulla corretta relazione con i precetti e le pratiche spirituali nel Buddismo.

Nel ricco e sfumato vocabolario del Pali, la lingua sacra in cui molti dei primi insegnamenti del Buddha furono tramandati, si cela una distinzione di notevole importanza tra due termini che, pur potendo apparire simili a una prima analisi, veicolano significati profondamente diversi e rivelano una sottile comprensione della dinamica della mente e del suo rapporto con il mondo: upādāna e samādāna.

Upādāna è una parola che risuona con familiarità nelle orecchie di coloro che si dedicano allo studio e alla pratica del Buddismo. È un termine polisemico, spesso tradotto con accezioni quali “attaccamento”, “aggrappamento”, “presa”, “sussistenza” o “combustibile”. In sostanza, upādāna denota una forma di adesione tenace, un aggrapparsi compulsivo a oggetti, persone, idee, esperienze o persino a stati mentali. Questa presa è generalmente radicata nell’ignoranza (avijjā) della vera natura impermanente, insoddisfacente e priva di un sé sostanziale di tali fenomeni. È un attaccamento che genera sofferenza, in quanto ci lega a ciò che è destinato a mutare e a svanire, creando frustrazione, ansia e delusione quando le nostre aspettative non vengono soddisfatte. Upādāna è quindi una delle radici fondamentali della sofferenza, un nodo che ci lega al ciclo incessante del samsara, la ruota della nascita, della morte e della rinascita.

Samādāna, d’altra parte, è un termine che compare specificamente nel contesto dei precetti monastici (sīla) e delle pratiche spirituali. Esso designa l’atto di accettare volontariamente, di intraprendere con consapevolezza e intenzione un precetto o una pratica. La radice della parola suggerisce un “prendere insieme”, un “assumere pienamente”. A differenza di upādāna, che è una reazione istintiva e spesso inconsapevole dettata dall’ignoranza e dal desiderio, samādāna implica una scelta deliberata, un atto di saggezza (paññā) e di consapevolezza (sati). Quando intraprendiamo un precetto con samādāna, lo facciamo con la chiara comprensione del suo valore etico e del suo potenziale nel purificare la nostra condotta e nel coltivare le qualità mentali positive. Ci “aggrappiamo” a esso, per così dire, non per un cieco attaccamento, ma con la saggezza di chi riconosce il suo ruolo nel condurci verso un maggiore benessere e verso la liberazione dalla sofferenza.

La distinzione cruciale tra queste due parole risiede quindi nella motivazione e nella comprensione che sottendono l’atto di “afferrare”. Con upādāna, ci aggrappiamo a qualcosa mossi dall’ignoranza, dalla cecità riguardo alla sua vera natura e alle conseguenze del nostro attaccamento. È un’azione dettata dalla brama, dall’avversione o da una visione distorta della realtà. Con samādāna, invece, ci “aggrappiamo” a qualcosa con saggezza, con una chiara consapevolezza del suo scopo e dei benefici che può apportare al nostro cammino spirituale. Manteniamo questa “presa” per tutto il tempo necessario al nostro progresso, con la flessibilità di rilasciarla quando il suo scopo è stato raggiunto o quando la nostra comprensione si è evoluta.

Il venerabile Ajahn Chah, con la sua innata capacità di rendere accessibili concetti profondi attraverso analogie semplici e illuminanti, soleva spiegare questa distinzione ricorrendo a un esempio concreto e quotidiano: non si tratta di non afferrare affatto un oggetto. Prendiamo, ad esempio, una bottiglia d’acqua. La afferriamo saldamente con la mano per poterla inclinare e versare il liquido nel bicchiere, soddisfacendo la nostra sete. Manteniamo la presa sulla bottiglia per tutto il tempo necessario a compiere l’azione desiderata. Una volta che abbiamo ottenuto l’acqua di cui avevamo bisogno, rilasciamo la presa e posiamo la bottiglia. Se, per paura dell’attaccamento all’oggetto, non avessimo afferrato affatto la bottiglia, non saremmo mai riusciti a dissetarci.

Allo stesso modo, samādāna è l’accettazione consapevole di qualcosa, l’assunzione di un impegno – che sia un precetto etico, una pratica meditativa o un principio spirituale – intrapreso con saggezza e con la chiara comprensione del suo valore. Una volta intrapreso questo impegno, ci relazioniamo ad esso con devozione, con un profondo senso di rispetto e fiducia nel suo potenziale trasformativo, e con lealtà al percorso che abbiamo scelto di seguire. Questa “presa” consapevole e motivata dalla saggezza è radicalmente diversa dall’aggrapparsi cieco e possessivo di upādāna, che è alimentato dall’ignoranza e conduce inevitabilmente alla sofferenza. La chiave sta quindi nel coltivare una relazione saggia e consapevole con i precetti e le pratiche, abbracciandoli con samādāna come strumenti preziosi sul cammino verso la liberazione, senza cadere nella trappola dell’upādāna, dell’attaccamento rigido e inflessibile alla forma piuttosto che alla sostanza.

Certamente, espandiamo ulteriormente questo cruciale insegnamento sul lasciar andare all’interno delle pratiche, esplorando in profondità le sue implicazioni e la natura dei cinque khandha che siamo chiamati a comprendere e a rilasciare.

L’essenza dell’insegnamento buddista sul lasciar andare si manifesta in una comprensione dinamica e trasformativa del nostro rapporto con l’esistenza. Contrariamente a una superficiale interpretazione che potrebbe suggerire un’evasione dalle responsabilità o un rifiuto di intraprendere le discipline spirituali, la vera essenza del lasciar andare si radica profondamente all’interno del nostro impegno attivo con la vita e con le pratiche che scegliamo di seguire. Lasciar andare non significa affatto sottrarsi al peso delle nostre responsabilità etiche e morali, né implica un’abbandono delle preziose pratiche meditative e contemplative che ci guidano sul sentiero della consapevolezza e della saggezza. Al contrario, il processo di liberazione dall’attaccamento e dalla sofferenza si dispiega in modo intrinseco e inseparabile all’interno di queste stesse pratiche, nel modo in cui ci relazioniamo ad esse e al nostro stesso essere.

La domanda che sorge spontanea e che merita una riflessione approfondita è: cosa è esattamente ciò che siamo chiamati a lasciare andare in questo processo interiore? La risposta fondamentale, che costituisce il cuore di molti insegnamenti buddisti, risiede nel lasciare andare i cinque khandha, i cinque aggregati dell’esperienza che costituiscono la totalità della nostra esistenza fenomenica, ciò che superficialmente e erroneamente percepiamo come il nostro “sé” unitario e permanente. Questi cinque aggregati sono:

Rūpa (il corpo fisico): L’aspetto materiale della nostra esistenza, il corpo con i suoi organi, le sue funzioni e la sua natura intrinsecamente impermanente e soggetta al decadimento.

Vedanā (le sensazioni): Le esperienze sensoriali ed emotive che sorgono in risposta ai nostri contatti con il mondo esterno e interno. Queste sensazioni possono essere piacevoli, spiacevoli o neutre.

Saññā (le percezioni): I processi cognitivi attraverso i quali riconosciamo, etichettiamo e interpretiamo le nostre esperienze sensoriali ed emotive, formando concetti e ricordi.

Saṅkhāra (le formazioni mentali): Una categoria vasta e complessa che include tutti i nostri pensieri, le nostre intenzioni, le nostre volizioni, le nostre credenze, i nostri giudizi e le nostre predisposizioni mentali, sia salutari (kusala) che non salutari (akusala). È il regno della nostra attività psichica e della creazione del karma.

Viññāṇa (la coscienza sensoriale): La consapevolezza che sorge in dipendenza dai nostri sensi (vista, udito, olfatto, gusto, tatto) e dalla mente. È la facoltà di esperire il mondo attraverso i nostri organi di senso e attraverso i nostri processi mentali.

Quando parliamo di “lasciar andare” questi cinque khandha, è essenziale comprendere che questa è un’espressione abbreviata che condensa un processo profondo e graduale. Non significa negare l’esistenza di questi aggregati o cercare di sopprimerli. Significa, piuttosto, lasciare andare il desiderio e l’attaccamento che nutriamo nei confronti di questi aspetti della nostra esperienza a causa della nostra ignoranza (avijjā) sulla loro vera natura. È l’attaccamento, la credenza erronea che questi aggregati costituiscano un “sé” permanente e soddisfacente, che è la radice della nostra sofferenza.

È cruciale riconoscere che, ovunque siamo, chiunque siamo, qualunque pratica spirituale stiamo intraprendendo, siamo costantemente in interazione e in relazione con questi cinque khandha o aggregati. La nostra esistenza fenomenica è interamente costituita da questi cinque elementi interdipendenti. Non esiste un “sé” separato e indipendente al di fuori di essi. Pertanto, la pratica del lasciar andare non implica una fuga dal mondo o una negazione della nostra esperienza, ma piuttosto una trasformazione radicale del nostro modo di relazionarci con questa stessa esperienza.

Il processo di lasciar andare i cinque khandha è un’indagine profonda e continua sulla loro natura impermanente, sulla loro intrinseca insoddisfazione e sulla loro assenza di un “sé” sostanziale. Attraverso la pratica della consapevolezza e della meditazione, impariamo a osservare questi aggregati con una chiarezza disincantata, riconoscendo i loro sorgere e il loro svanire, la loro natura condizionata e la loro incapacità di offrirci una felicità duratura se ci aggrappiamo ad essi con ignoranza e desiderio. È in questa osservazione lucida e distaccata che il potere dell’attaccamento inizia gradualmente a dissolversi, aprendo la via a una maggiore libertà interiore e a una profonda comprensione della vera natura della realtà. La pratica del lasciar andare non è quindi un atto di negazione, ma un processo di risveglio alla verità della nostra esistenza.

Nel nostro percorso di liberazione dalla sofferenza, un passo fondamentale e spesso arduo è quello di abbandonare il nostro attaccamento al corpo fisico. Questa affermazione, tuttavia, richiede una comprensione accurata per evitare interpretazioni errate. Non significa affatto che dobbiamo diventare negligenti nei confronti del nostro corpo, trascurando la sua salute e il suo benessere, o che dobbiamo rifiutare le cure mediche quando la malattia si manifesta. Al contrario, prendersi cura del corpo in modo saggio e consapevole può essere parte integrante della nostra pratica. Il vero significato di abbandonare l’attaccamento al corpo risiede in un’indagine interiore profonda, in un’attenta esaminazione della nostra mente e nella vigilanza costante per non identificarci in modo assoluto e inflessibile con il corpo fisico, per non considerarlo il nostro “io” autentico e permanente.

La pressione su di noi in questo senso è straordinariamente forte, e questa intensità si è acuita in modo significativo nel contesto della vita moderna. In epoche passate, la realtà sociale per la maggior parte delle persone era caratterizzata da comunità relativamente piccole e da limitate opportunità di spostamento e di esposizione a un’ampia varietà di individui. In particolare in contesti come la Thailandia tradizionale, ma anche nel mondo occidentale prima della rivoluzione industriale e della globalizzazione dei media, il numero di volte in cui ci si trovava direttamente di fronte all’immagine di qualcuno percepito come più attraente di noi era piuttosto esiguo. Le interazioni erano prevalentemente limitate al proprio contesto familiare e comunitario, offrendo un panorama di confronto meno vasto e potenzialmente meno generatore di insoddisfazione corporea.

Tuttavia, nel mondo contemporaneo, specialmente se si vive immersi nel tessuto della società moderna, ovunque si vada si è costantemente bombardati da immagini di persone considerate attraenti secondo i canoni estetici dominanti. Che si tratti degli imponenti cartelloni pubblicitari che costellano le nostre città, della televisione che trasmette incessantemente ideali di bellezza spesso irrealistici, o delle patinate pagine di riviste e giornali, siamo sottoposti a un flusso continuo di rappresentazioni corporee che ci inducono, spesso in modo subdolo e inconscio, a confrontarci, a misurare il nostro stesso corpo con quei modelli idealizzati e a sperimentare un senso di insoddisfazione nei confronti del nostro aspetto fisico.

In particolare, è stata la sfortunata sorte delle donne nel corso della storia quella di essere particolarmente vulnerabili a questo tipo di condizionamento. Spesso, sono state sottoposte a un vero e proprio lavaggio del cervello culturale, venendo spinte o costrette a misurare il proprio valore come esseri umani prevalentemente, se non esclusivamente, in base all’attrattiva del proprio corpo secondo gli standard imposti dalla società. Questa oggettivazione e riduzione del valore umano all’aspetto esteriore ha generato e continua a generare profonde sofferenze psicologiche e sociali.

Ma la verità fondamentale che la pratica buddista ci invita a contemplare è che identificarci in modo assoluto con il corpo è un errore che ci predispone inevitabilmente alla sofferenza. Il corpo, per sua natura, è un’entità transitoria, soggetta all’invecchiamento, alla malattia, al deterioramento e infine alla morte. Il corpo non è un amico affidabile e permanente su cui possiamo fondare la nostra identità e la nostra felicità duratura. Nonostante tutti gli sforzi che compiamo per prenderci cura di esso, con tanta diligenza e dedicandogli così tanto tempo ed energia, nonostante la gentilezza e l’attenzione che gli rivolgiamo, alla fine come ci ripaga? Inevitabilmente, invecchia, si ammala, le sue funzioni declinano, si disgrega e cessa di esistere.

Questa realtà ci ricorda una verità fondamentale a cui dovremmo rivolgere la nostra mente ripetutamente e con profonda serietà: niente dura. Questa semplice affermazione racchiude un insegnamento potente e liberatorio. Ci rammenta la verità basilare di anicca, l’impermanenza, uno dei tre segni dell’esistenza nel Buddismo. Non c’è assolutamente nulla nel regno fenomenico che possa persistere immutabile nel tempo. Il corpo fisico, con la sua bellezza effimera e la sua fragilità intrinseca, non fa eccezione a questa legge universale. Riconoscere questa verità è il primo passo per allentare la presa dell’attaccamento e per trovare una pace più profonda nella consapevolezza della natura transitoria di tutte le cose.

Certamente, approfondiamo ulteriormente le implicazioni profonde dell’identificazione con il corpo e la sua intrinseca natura transitoria, esplorando le dinamiche del nostro investimento emotivo e le resistenze che opponiamo alla verità dell’impermanenza.

Affermare con certezza che se ti identifichi con il corpo, inevitabilmente ti identifichi con qualcosa che ti tradirà, non è un giudizio severo o una condanna della nostra esistenza fisica, bensì una lucida constatazione della sua natura intrinseca. Il corpo, per quanto possa apparire solido e familiare, è in realtà un processo dinamico e in costante mutamento, soggetto alle leggi inesorabili dell’entropia e del decadimento. Considerarlo come il nostro vero “io”, come un’entità permanente e affidabile su cui fondare la nostra identità e la nostra felicità, è una fonte inesauribile di delusione e sofferenza.

L’affermazione che il corpo non è un buon amico non deve essere interpretata come un invito all’odio o al disprezzo verso la nostra forma fisica. Piuttosto, essa ci spinge a riconsiderare la natura della nostra relazione con esso e le aspettative irrealistiche che spesso vi proiettiamo. Ci impegniamo innumerevoli sforzi per il corpo: facciamo di tutto per il corpo, lo nutriamo, lo puliamo, lo adorniamo, lo esercitiamo, cerchiamo di proteggerlo da ogni male. Ce ne prendiamo cura con tanta diligenza, investendo tempo, energia e risorse considerevoli nel tentativo di mantenerlo in salute e attraente. Gli dedichiamo così tanto tempo, spesso con una meticolosità quasi ossessiva, inseguendo ideali di bellezza e di forma fisica effimeri e mutevoli. Siamo così gentili con il nostro corpo, cercando di soddisfare ogni suo desiderio e di alleviare ogni suo disagio.

Eppure, nonostante questa dedizione costante e questa premura assidua, alla fine come ci ripaga? La risposta, per quanto possa essere dolorosa da accettare pienamente, è inequivocabile: invecchia, si ammala, le sue forze declinano gradualmente, si disgrega e infine muore. Questo ciclo inesorabile è la verità ultima della nostra esistenza fisica, una realtà che spesso cerchiamo di ignorare o di relegare ai margini della nostra consapevolezza, ma che inevitabilmente si manifesterà.

Questa constatazione ci riconduce a una verità fondamentale a cui dovremmo rivolgere la nostra mente ancora e ancora: niente dura. Questa frase, nella sua semplicità disarmante, racchiude un insegnamento di portata universale e trasformativa. È una frase così potente proprio perché ci spoglia delle nostre illusioni di permanenza e ci confronta direttamente con la natura effimera di ogni fenomeno condizionato. Ci ricorda una verità molto semplice, una verità che echeggia nel cuore degli insegnamenti buddisti: la semplice verità di anicca, l’impermanenza. Non esiste nulla nel regno dell’esperienza che possa sottrarsi alla legge del cambiamento, del sorgere e del cessare. Non c’è niente che duri in modo assoluto e definitivo, né il nostro corpo, né le nostre emozioni, né i nostri pensieri, né le nostre relazioni, né le nostre conquiste materiali.

Ed è proprio rivolgendo la mente a queste verità molto semplici, a queste constatazioni basilari sulla natura della realtà, che iniziamo a riconoscere la profonda resistenza che tutti noi, in misura maggiore o minore, nutriamo nei loro confronti. La nostra innata tendenza è quella di aggrapparci alla stabilità, alla sicurezza e alla permanenza, anche di fronte all’evidenza contraria. Desideriamo che le cose che ci piacciono rimangano immutabili, che le persone che amiamo siano sempre presenti, che i momenti felici si protraggano all’infinito. Questa resistenza all’impermanenza è una delle radici profonde della nostra sofferenza, poiché ci pone in costante conflitto con la natura intrinseca della realtà. Riconoscere questa resistenza è il primo passo per iniziare a scioglierla e per aprirci a una comprensione più profonda e liberatoria della vera natura dell’esistenza.

La nostra esperienza umana è profondamente segnata da un paradosso fondamentale: da un lato, aspiriamo alla stabilità, alla sicurezza e alla continuità; dall’altro, siamo costantemente confrontati con la realtà ineludibile del cambiamento. Quanto intensamente desideriamo che le cose durino, che i momenti felici si prolunghino all’infinito, che le persone che amiamo rimangano per sempre al nostro fianco! Questo desiderio di permanenza è radicato in profondità nel nostro essere, una sorta di anelito a un’immutabilità che, purtroppo, è destinata a rimanere un’illusione.

Questo desiderio si manifesta con particolare intensità nelle esperienze che ci toccano più da vicino, in quelle che ci riempiono di gioia, di bellezza o di amore. Vediamo storie, amori, raccontati in innumerevoli forme artistiche e letterarie, che celebrano l’intensità di un incontro, la magia di un momento, la profondità di un legame. E in queste storie, spesso, risuona un’espressione che cattura perfettamente il nostro desiderio di trascendere il fluire del tempo: notte di luna, giovane uomo, giovane donna, immersi in un’atmosfera incantata, e uno dei due pronuncia con trasporto: “Vorrei che questa notte durasse per sempre“.

Perché mai esprimere un desiderio così intenso e apparentemente irrealizzabile? Perché sanno, a un livello più o meno consapevole, che non dura. La consapevolezza della transitorietà è implicita in quel desiderio. È proprio perché percepiscono la bellezza fugace del momento, la sua intrinseca impermanenza, che sentono il bisogno di esprimerne il desiderio di eternità. Poiché la notte di luna con la sua luce soffusa e il suo incanto, e quell’intensità di emozione romantica, con la sua forza travolgente e la sua capacità di farci sentire vivi, non durano, ecco che nasce questa espressione, questo anelito che affiora spontaneo dal cuore umano: “Se solo questo potesse durare per sempre, se solo potessimo congelare questo momento nel tempo“.

Questo desiderio di “congelare il momento” è un riflesso della nostra lotta interiore con la realtà del cambiamento. Vorremmo fermare il tempo, trattenere la bellezza, prolungare la gioia, ma la natura stessa dell’esistenza si oppone a questa nostra aspirazione. Il tempo scorre inesorabile, le situazioni mutano, le emozioni si affievoliscono, le persone cambiano. Ma non possiamo. Per quanto intensamente lo desideriamo, per quanto ci sforziamo di trattenerlo, niente dura. Questa è una verità fondamentale e universale che il Buddismo ci invita a contemplare e ad accettare, non come una condanna, ma come una chiave per la liberazione.

La comprensione e l’accettazione dell’impermanenza non implicano una rinuncia alla gioia o all’amore, ma piuttosto un cambiamento nel modo in cui ci relazioniamo ad essi. Invece di aggrapparci disperatamente alla loro fugacità, possiamo imparare ad apprezzarli pienamente nel momento presente, riconoscendo la loro bellezza proprio nella loro transitorietà. Possiamo coltivare la gratitudine per ciò che abbiamo, senza la paura di perderlo, e trovare la pace nella consapevolezza che tutto, anche la sofferenza, è destinato a passare.

L’affermazione che “questo corpo non dura” è una constatazione fondamentale che permea gli insegnamenti buddisti e che ci invita a una profonda riflessione sulla natura della nostra esistenza fisica. Il corpo, con la sua apparente solidità e familiarità, è in realtà un processo dinamico e in costante cambiamento, soggetto alle leggi inesorabili dell’invecchiamento, della malattia e del decadimento. Questa realtà, spesso ignorata o negata, ha implicazioni profonde per il nostro benessere psicologico e spirituale.

Quindi, più investiamo il nostro senso di dignità, autostima e identità nel corpo, più ci prepariamo al dolore. Questa connessione tra l’identificazione con il corpo e la sofferenza è cruciale per comprendere la prospettiva buddista. Quando fondiamo il nostro senso di valore personale, la nostra fiducia in noi stessi e la nostra stessa percezione di chi siamo sull’aspetto fisico, ci rendiamo vulnerabili a una serie di esperienze negative. L’invecchiamento, le malattie, gli infortuni e i cambiamenti estetici diventano minacce alla nostra autostima, innescando ansia, insicurezza e una costante preoccupazione per il nostro aspetto. La paura di perdere la bellezza, la giovinezza o la salute diventa una presenza costante nella nostra vita, oscurando la gioia e la serenità.

Non si tratta di adottare un particolare atteggiamento negativo o di disprezzo nei confronti del corpo, ma piuttosto di coltivare una disposizione mentale di chiara visione e consapevolezza. Il Buddismo non ci invita a odiare il nostro corpo, ma a osservarlo con lucidità e distacco, riconoscendone la sua natura transitoria e la sua incapacità di fornirci una felicità duratura se lo consideriamo il nostro vero “io”.

Quando osserviamo il corpo degli altri, possiamo notare con maggiore evidenza quanto le nostre percezioni siano selettive e condizionate. Possiamo renderci conto di quanto siamo particolari, di quanto le nostre preferenze e avversioni plasmino il modo in cui vediamo gli altri. Quanto siamo prevenuti, influenzati da stereotipi culturali, da ideali di bellezza imposti dalla società e dalle nostre esperienze personali. Quanto tendiamo a soffermarci su certi aspetti del corpo che ci attraggono o ci respingono, lasciando che queste impressioni superficiali offuschino la nostra capacità di vedere l’intera persona. E allo stesso tempo, quanto tendiamo a cercare di distogliere la mente da altri aspetti del corpo che troviamo sgradevoli o che non si conformano ai nostri ideali.

La mente è attratta da quegli aspetti del corpo che sono eccitanti, stimolanti, che troviamo belli. Questa attrazione è un fenomeno naturale, ma è importante osservare con consapevolezza la sua intensità e il suo impatto sulle nostre percezioni. Quando troviamo qualcuno attraente, la nostra attenzione si focalizza su certi aspetti del suo aspetto fisico che catturano la nostra immaginazione e suscitano il nostro interesse.

Questa selettività nella nostra percezione corporea può portare a una visione distorta e incompleta degli altri, così come di noi stessi. Ci aggrappiamo a immagini idealizzate, ignorando la complessità e la totalità dell’essere umano. La pratica buddista ci invita a coltivare una visione più ampia e compassionevole, riconoscendo la bellezza e la dignità intrinseca di ogni corpo, al di là delle sue imperfezioni e della sua transitorietà. Si tratta di sviluppare un’equanimità che ci permetta di apprezzare la forma umana senza cadere nella trappola dell’attaccamento e del giudizio.

Certamente, approfondiamo ulteriormente il tema delle sensazioni (vedanā) e del loro impatto sulla nostra condotta, nonché l’importanza della pazienza e della consapevolezza nella pratica spirituale.

L’insegnamento buddista ci invita a un’osservazione attenta e penetrante della nostra esperienza interiore, e in particolare a riconoscere quanto le nostre vite siano dominate dai vedanā, i sentimenti e le sensazioni, e quanto profondamente essi limitino la nostra condotta. Questa affermazione ci sfida a esaminare in che misura le nostre scelte, le nostre azioni e le nostre decisioni sono influenzate dalla ricerca del piacere e dall’evitamento del dolore.

Quante volte ci allontaniamo da azioni sane, nobili e belle, azioni che sappiamo essere in linea con i nostri valori più profondi e con il nostro potenziale di crescita, semplicemente perché temiamo i dukkha-vedanā, i sentimenti e le sensazioni spiacevoli, che potremmo incontrare mentre le compiamo? Quante volte evitiamo di affrontare situazioni difficili, di esprimere la nostra verità, di perseguire i nostri obiettivi, per paura del disagio, della frustrazione, della vergogna o di altre emozioni negative?

E, all’estremo opposto, quante volte compiamo azioni che sappiamo nel profondo del nostro cuore che ci porteranno dolore, conseguenze negative e sofferenza – azioni sciocche, banali, ignobili – semplicemente per la sete di sensazioni piacevoli che speriamo sorgeranno nel compierle? Quante volte cediamo a impulsi momentanei, a gratificazioni immediate, a piaceri fugaci, anche se sappiamo che a lungo termine ci lasceranno con un senso di vuoto, di rimorso o di colpa?

Quante volte tradiamo i nostri ideali più elevati, i principi che consideriamo fondamentali per la nostra integrità e il nostro benessere, semplicemente attraverso la debolezza che si manifesta come un’eccessiva inclinazione verso le sensazioni piacevoli e un’eccessiva avversione e paura per quelle spiacevoli? Questa dinamica di attrazione e avversione, di desiderio e repulsione, è una forza potente che può facilmente deviarci dal nostro cammino e compromettere la nostra autenticità.

È in questo contesto che emerge l’importanza cruciale della pazienza e della sopportazione paziente (khanti), una virtù che, come sottolineato nel testo, è probabilmente una delle più sottovalutate e dimenticate nella società moderna. In un’epoca caratterizzata dalla velocità, dall’immediatezza e dalla ricerca del piacere istantaneo, la capacità di sopportare le difficoltà, di perseverare di fronte alle avversità e di mantenere la calma in situazioni stressanti viene spesso considerata una debolezza o una mancanza di ambizione.

Si pensa che uno dei vantaggi della ricchezza e del progresso tecnologico sia la libertà che ci offrono dalla necessità di sopportare cose che non ci piacciono, di dover affrontare situazioni scomode o di dover aspettare per ottenere ciò che desideriamo. L’illusione è che possiamo avere tutto a portata di mano, pur avendo tutto a portata di mano ogni volta che lo vogliamo, non appena lo vogliamo.

Persino in contesti spirituali, anche da monaci, talvolta ci troviamo a esprimere un certo fatalismo di fronte alle difficoltà, dicendo: “Oh, è stato terribile, ma almeno ne ho tratto un po’ di sopportazione paziente”. È come se la pazienza fosse considerata una specie di premio di consolazione, un magro risarcimento per aver dovuto affrontare un’esperienza spiacevole. “Se non ne ricaviamo altro di buono, almeno ne abbiamo tratto un po’ di sopportazione paziente”.

Questa mentalità rivela quanto poco la pazienza sia apprezzata e coltivata, persino in ambienti dove ci si aspetterebbe che fosse una virtù fondamentale. La pazienza non è una virtù che nessuno, nemmeno i monaci di oggi, tende a incoraggiare attivamente.

Eppure, quando ci rivolgiamo alle fonti della saggezza buddista, quando leggiamo l’ovāda pāṭimokkha, un compendio dei principi fondamentali del Dharma, cosa dice il Buddha? Egli afferma con enfasi che la sopportazione paziente, khanti, è il supremo inceneritore delle impurità mentali. Questa affermazione attribuisce alla pazienza un ruolo centrale e trasformativo nel processo di purificazione interiore.

Logicamente parlando, se siamo sinceramente intenzionati a sradicare completamente le contaminazioni che oscurano la nostra mente e ci impediscono di vedere la realtà così com’è, allora quando qualcuno si comporta in modo davvero irritante e ci mette a dura prova, e noi dobbiamo solo essere pazienti, dovremmo in realtà essergli estremamente grati, perché ci sta offrendo un’opportunità preziosa per incenerire le nostre impurità.

Quando ci troviamo nella posizione di dover esercitare la pazienza, ciò non significa che stiamo semplicemente sopportando passivamente una situazione spiacevole, o che non la stiamo praticando attivamente, o che si tratti di una sorta di pratica ausiliaria o secondaria. Al contrario, è il cuore stesso della pratica spirituale, un’opportunità per coltivare la calma, l’equanimità e la saggezza.

Ma c’è un punto cruciale da sottolineare qui: la vera pazienza, khanti, è quella in cui non c’è il senso del tempo. Se stringiamo i denti, sopportando a fatica e pensando costantemente “Quanti minuti ancora mancano?” e “Quando finalmente finirà questa tortura?”, quello non è veramente khanti. Quella è una forma di sopportazione forzata, di resistenza passiva, che non porta alla vera trasformazione interiore.

Quando c’è khanti, non c’è quel senso del tempo. La mente è completamente presente, calma e distaccata, capace di osservare la situazione spiacevole senza reagire con rabbia, frustrazione o impazienza. È la perfezione della pazienza, un’accettazione serena del momento presente, anche se scomodo o difficile.

Il venerabile Luang Por Sumedho ha espresso questa qualità in modo meraviglioso con la frase: “Coesistenza pacifica con lo spiacevole”. Questa espressione racchiude l’essenza della vera pazienza: non si tratta di evitare o fuggire dalle situazioni spiacevoli, ma di imparare a conviverci in armonia, senza lasciarsi sopraffare dalle emozioni negative.

Osserva attentamente il tuo atteggiamento verso le sensazioni piacevoli e spiacevoli e trova un modo per lasciarle andare. Questa è la chiave per liberarsi dalla loro tirannia e per trovare la vera libertà interiore.

Certo, quando meditiamo, quando ci ritiriamo in silenzio per coltivare la consapevolezza, intendiamo e miriamo alla pace, alla tranquillità, alla chiarezza mentale. Queste sono aspirazioni nobili e salutari. Ma allo stesso tempo dovremmo riconoscere che la meditazione è il modo in cui ci confrontiamo o incontriamo profondamente con noi stessi. È un’opportunità per esplorare il nostro paesaggio interiore, per osservare i meccanismi della nostra mente e per comprendere le nostre reazioni abituali.

È come se mettessimo la nostra mente sotto un potente microscopio. Questo paragone illustra l’intensità e la precisione dell’osservazione che la meditazione ci permette di compiere.

E una delle cose che dovremmo essere più interessati a osservare nella meditazione è il nostro atteggiamento, la nostra reazione o risposta alle sensazioni piacevoli e spiacevoli che sorgono durante la pratica. Questo è il vero laboratorio dove possiamo studiare le nostre tendenze e i nostri condizionamenti.

Cosa succede di solito quando una gamba, un ginocchio o la schiena iniziano a farci male durante la meditazione? La nostra mente è piena di risorse per affrontare il dolore, ma le usiamo? Ti deprimi, ti agiti, diventi ansioso, provi avversione per la sensazione? Che tipo di reazioni mentali e fisiche si presentano?

Se queste reazioni negative si presentano abitualmente quando provi un dolore fisico mentre sei seduto, puoi essere ragionevolmente certo che le stesse reazioni, magari in forme più sottili, si presentano anche nella tua vita quotidiana quando devi sopportare qualcosa di spiacevole, sia esso fisico o mentale.

Nella meditazione esponi, porti alla luce e riesci a osservare molto più chiaramente le complesse reazioni mentali alle esperienze che si verificano nella vita di tutti i giorni, ma come se fossi in un laboratorio, in un ambiente controllato dove puoi esaminare attentamente i tuoi processi interiori.

Lo stesso vale per le sensazioni piacevoli. La nostra relazione con il piacere è spesso altrettanto problematica quanto la nostra relazione con il dolore. Alcuni meditatori hanno sorprendentemente paura delle sensazioni piacevoli, paura di lasciarsi andare, di assorbirle completamente, di affezionarvisi.

Le persone possono sperimentare questa paura al punto da non penetrare realmente l’oggetto di meditazione quanto dovrebbero. C’è paura di una beatitudine travolgente, di perdere il controllo e di essere sopraffatti dal piacere.

A volte il bisogno di avere il controllo e di mantenere un senso di autonomia può essere persino più forte del movimento verso la pace interiore e la felicità. Questa resistenza al piacere è un ostacolo significativo sul cammino spirituale.

Ma il cammino verso la liberazione, il cammino verso la piena comprensione della sofferenza, può essere seguito appieno, e la sofferenza può essere veramente compresa solo da una mente felice, sukha. Se non hai una mente felice, la sofferenza rimane sempre “la mia sofferenza”, un’esperienza personale e limitante.

L’unico modo in cui puoi comprendere la sofferenza come una Nobile Verità, come un fenomeno universale e impersonale, è quando non stai soffrendo, quando ti senti felice, contento e a tuo agio, almeno a livello di vedanā.

Quindi sukha (la felicità) fa parte integrante del Sentiero. Non è un ostacolo, ma un prerequisito per una profonda comprensione della realtà.

E il meditatore, il praticante diligente, sta cercando di sviluppare una relazione saggia e intelligente con le sensazioni piacevoli. Questo è il vero significato di lasciar andare le sensazioni piacevoli: sperimentare una sensazione piacevole come tale, semplicemente come un’esperienza transitoria, è solo questo, né più né meno.

È una cosa meravigliosa, un dono da apprezzare, ma non è l’obiettivo più elevato. La felicità sensoriale è effimera e condizionata.

Eppure possiamo apprezzarla e farne uso sul Cammino, come un sostegno temporaneo, come un’energia positiva che ci aiuta a coltivare la calma e la concentrazione.

Lasciar andare le sensazioni spiacevoli e piacevoli non significa che dobbiamo allontanarcene o diventare insensibili. Questa non è la via della liberazione.

Tutt’altro. La pratica corretta implica piuttosto risvegliarsi alla vera natura delle sensazioni – spiacevoli, piacevoli e neutre – comprendere la loro impermanenza, la loro mancanza di un “sé” intrinseco e il loro ruolo nel condizionare la nostra esperienza.

Per la maggior parte di noi, la mente è costantemente insoddisfatta e inquieta a causa della mancanza di chiarezza riguardo alle emozioni. Siamo spesso in balia delle nostre sensazioni, reagendo automaticamente ad esse senza comprenderne la natura.

Se qualcuno dicesse: “Guarda, ti darò un po’ di sensazione spiacevole… un po’ di dolore, solo un pochino. Ti piacerebbe?”. La risposta istintiva è un sonoro “No.” Nessuno desidera volontariamente la sofferenza.

“Ti darò un po’ di beatitudine, solo un pochino di beatitudine, solo un piccolissimo pezzettino di beatitudine.” La reazione a questa offerta è generalmente un entusiastico “Sì, grazie!”

Questo è un riflesso di questo movimento di attrazione e avversione, di desiderio e repulsione, che è così radicato nella mente non illuminata. Siamo costantemente alla ricerca del piacere e in fuga dal dolore.

Uno dei valori del samādhi (la concentrazione meditativa) e dell’incrollabilità della mente che ne deriva è la capacità estremamente accresciuta di stare con le cose senza aggrapparsi ad esse, di osservare le sensazioni senza reagire automaticamente.

E di vedere le sensazioni come sensazioni: sensazioni piacevoli e sensazioni spiacevoli. Questa è una comprensione fondamentale che ci libera dalla loro tirannia.

Questo è qualcosa che ci interessa profondamente. È il cuore della nostra indagine interiore.

Quindi, se siete seduti a meditare e avete dolori e fastidi, se il corpo protesta e la mente si ribella, non significa che non possiate meditare. Anzi, è proprio in quei momenti che la pratica diventa più significativa.

È proprio di questo che si tratta. Si tratta di imparare a dimorare in modo più pieno e completo nel presente, di arrivare a dimorare in modo più pieno, più completo; di risvegliarsi alla realtà presente e di imparare a lasciar andare le sensazioni.

Abbiamo tutti ricordi, percezioni – saññā. Questi processi mentali sono essenziali per la nostra sopravvivenza e per il nostro funzionamento nel mondo.

Ma spesso il modo in cui conduciamo la nostra vita è troppo condizionato dalle percezioni e dai ricordi, e da come ci portiamo dietro idee preconcette, assunzioni e giudizi che spesso non esaminiamo criticamente.

Idee su persone, situazioni, monasteri e così via. Queste percezioni possono diventare delle gabbie mentali che limitano la nostra libertà e la nostra capacità di vedere la realtà così com’è.

Ricordo una volta di aver parlato con un monaco che stava criticando aspramente un altro monaco. (Sì, anche i monaci, nonostante i loro sforzi per coltivare la virtù, sono soggetti a volte a pettegolezzi e giudizi.)

Disse: “Oh, questo o quel monaco viene a trovarci e non è un monaco molto simpatico. Ha questa brutta qualità e quell’altra brutta qualità”.

E io dissi: “Oh, lo conosci molto bene, vero? Hai avuto modo di frequentarlo a lungo e di conoscerlo a fondo?”.

Lui rispose: “Sì, abbiamo trascorso insieme un ritiro delle piogge cinque anni fa”.

E così fece elaborare completamente questo monaco, giudicandolo e definendolo in modo rigido e definitivo, mappandolo sulla base di un periodo di tre mesi cinque anni prima. Questa è una chiara dimostrazione di come le percezioni e i ricordi possono cristallizzarsi nella nostra mente, imprigionandoci in una visione limitata e distorta della realtà.

Questo è un buon esempio di come vediamo gli altri esseri umani come sé stessi, come entità fisse e immutabili, come qualcosa di fisso e immutabile, mentre in realtà siamo esseri mutevoli. Siamo in costante flusso, in continua trasformazione.

Non c’è niente di fisso, niente di immutabile in noi. I nostri pensieri, le nostre emozioni, le nostre opinioni, le nostre abitudini, tutto è soggetto al cambiamento.

E questo vale in particolar modo per coloro che sono sul cammino della pratica spirituale. La pratica consapevole accelera il processo di trasformazione interiore, rendendoci più liberi e più flessibili.

In Thailandia, e in effetti in molti paesi, indovini e chiromanti sono molto popolari. La credenza nel destino e nella predestinazione è diffusa.

Ma i buoni chiromanti, quelli che hanno una profonda comprensione della dinamica della mente, si rifiutano di guardare il palmo di qualcuno che sta meditando, di qualcuno che si dedica con impegno alla pratica spirituale.

Dicono che quando qualcuno inizia a meditare, tutto è perduto, per così dire. Il futuro di quella persona diventa imprevedibile, perché la pratica trasforma profondamente la sua mente e il suo modo di essere.

Non sono sicuri di poter predire il futuro di qualcuno che ha iniziato a praticare a livello di sīla (etica), samādhi (concentrazione) e paññā (saggezza), la pratica interiore-esteriore in armonia simultanea. La pratica integrata di questi tre aspetti del cammino buddista ha un impatto profondo e duraturo sulla nostra vita.

Qualcosa cambia, un cambiamento radicale e benefico avviene in colui che si impegna nella pratica consapevole.

Il Buddha lo ha espresso magnificamente in diverse occasioni. Ha usato immagini potenti per descrivere la bellezza e la trasformazione di colui che abbandona la distrazione e intraprende il cammino della consapevolezza.

Quando coloro che prima erano distratti si allontanano dalla disattenzione e diventano attenti, quando iniziano a coltivare la presenza mentale e la saggezza, intraprendendo il cammino della pratica, sono così belli. La loro luminosità interiore risplende, irradiando pace e saggezza.

Illuminano il mondo come la luna piena che appare da dietro le nuvole. Questa immagine evoca la chiarezza, la calma e la serenità che si manifestano in colui che si libera dalle oscurità dell’ignoranza.

Questo è forse uno degli aspetti essenziali e più caratteristici degli insegnamenti buddisti: la sensazione, la profonda convinzione che possiamo cambiare. Non siamo prigionieri del nostro passato, del nostro temperamento o del nostro destino.

Il nostro futuro non è determinato da Dio, dagli dei, dalla fede o dalle stelle. Non siamo vittime di forze esterne che ci controllano.

È determinato dalle nostre azioni di corpo, parola e mente. Siamo gli artefici del nostro destino, responsabili delle nostre scelte e del nostro cammino.

Siamo in grado di assumerci la responsabilità della nostra vita e di apportare cambiamenti reali e duraturi, cambiamenti sorprendenti, se ci impegniamo con sincerità e diligenza nella pratica.

Se seguiamo l’Ottuplice Sentiero che il Buddha ha tracciato per noi, il sentiero che conduce alla liberazione dalla sofferenza, non scegliendo e selezionando solo gli aspetti che ci piacciono o ci sembrano facili, ma prendendo in considerazione il pacchetto completo, l’intera vasta gamma di insegnamenti e pratiche, possiamo trasformare radicalmente la nostra vita e raggiungere la felicità autentica e duratura.

Quindi riconosciamo fino a che punto siamo limitati dalle percezioni, dai ricordi, dalle idee preconcette che abbiamo su noi stessi e sul mondo.

Avremo la percezione di noi stessi come disperati, inutili, inadeguati (o, all’estremo opposto, come estremamente capaci e brillanti e così via). Ma queste sono solo percezioni, costruzioni mentali che non riflettono la vera natura della realtà.

Ma alla fine queste sono solo percezioni. Sono pensieri, sentimenti, immagini che sorgono e svaniscono nella nostra mente.

Per molto, molto tempo hai accettato l’idea di essere un certo tipo di persona, di avere determinate caratteristiche, limiti e potenzialità. E ci hai pensato così tanto, e ci hai creduto così profondamente, e ci hai soffermato così tanto la tua attenzione, che è diventata una verità evidente nella tua mente.

E poi un giorno, in meditazione, in un momento di profonda consapevolezza, improvvisamente ti rendi conto che è solo una bolla. È solo un’illusione, un’immagine mentale che hai creato e a cui ti sei aggrappato.

È solo un altro pensiero. È solo un’altra percezione, un’altra sensazione.

È solo qualcosa che nasce e svanisce. Non ha una realtà intrinseca e permanente.

Spesso le persone si avvicinano alla pratica spirituale, alla meditazione, pensando: “Non mi piace chi sono. Vorrei essere una persona diversa”. Questo è un punto di partenza comune, ma è importante comprenderne le limitazioni.

L’idea di essere qualcuno che non piace veramente e che vorrebbe essere qualcun altro è un approccio sbagliato, erroneo e in definitiva frustrante. È un tentativo di fuggire da se stessi, di negare la propria realtà presente.

Invece, quando si osserva attentamente, con curiosità e accettazione, l’intenzione è osservare e imparare da ciò che è presente. Non si tratta di giudicare o di cambiare, ma di comprendere.

Allora si scoprirà che quelle idee di essere “qualcuno” sono solo cose che nascono e svaniscono. Sono costruzioni mentali, etichette che ci siamo dati o che abbiamo accettato dagli altri.

Non hanno nulla di sostanziale. Non definiscono la nostra vera essenza.

Se c’è un “problema”, se ci sono difficoltà o sfide, non è un problema nel senso di qualcosa di intrinsecamente sbagliato o irrimediabile. È semplicemente una parte dell’esperienza umana, un’opportunità per la crescita e la trasformazione.

Ma anche se osservi attentamente la natura delle percezioni e dei ricordi, anche se comprendi la loro impermanenza e la loro insostanzialità, non puoi vivere senza di essi. Sono strumenti essenziali per la nostra sopravvivenza e per il nostro funzionamento nel mondo.

Devi lasciar andare la memoria e la percezione, non nel senso di eliminarle o sopprimerle, ma nel senso di non aggrapparti ad esse, di non identificarle come il tuo vero “io”.

E la lasci andare vedendo la memoria e la percezione semplicemente come tali. Sono processi mentali, eventi che sorgono e svaniscono, senza una realtà intrinseca o permanente.

Sono semplicemente così. Sono parte del flusso della nostra esperienza.

Solo in questo modo. Questa è la chiave per la liberazione: vedere le cose così come sono, senza aggiungere giudizi o interpretazioni.

È così. Questa è la realtà.

È così che funziona la mente. Questo è il suo modo di operare, con i suoi pensieri, le sue emozioni, i suoi ricordi.

Funziona così. Non c’è niente di sbagliato in questo.

E va bene così. L’accettazione è fondamentale per la trasformazione.

Il quarto khandha è il saṅkhāra. Questo termine è complesso e sfaccettato, e può essere tradotto in vari modi, come “formazioni mentali”, “volizioni”, “intenzioni” o “attività karmica”.

È il khandha del kamma. Il saṅkhāra è il motore delle nostre azioni, la forza che ci spinge a compiere scelte e ad agire nel mondo.

Possiamo parlare dei cinque khandha in modi diversi. Ci sono molte prospettive da cui possiamo esaminarli, a seconda del contesto e dell’obiettivo della nostra analisi.

Dei cinque khandha, rūpa (corpo), vedanā (sensazioni), saññā (percezione) e viññāṇa (esperienza sensoriale) sono vipāka, i risultati del kamma del passato. Sono il frutto delle nostre azioni precedenti, le conseguenze che raccogliamo nel presente.

Mentre il saṅkhāra khandha è guidato e dominato dalla volizione. È la forza propulsiva che determina le nostre azioni future.

È il khandha della creazione del kamma: kusala kamma e akusala kamma, azioni salutari e non salutari. Sono le nostre intenzioni e le nostre scelte che plasmano il nostro destino.

E volizione, pensiero e intenzione sono i dhamma (fenomeni mentali) che dobbiamo abbandonare. Non dobbiamo eliminarli, ma imparare a relazionarci con essi in modo saggio e consapevole, senza aggrapparci ad essi o identificarci con essi.


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